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MARCE, NON MERCE /// il discorso con cui apriamo, senza vendere niente

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Care amiche e care amiche,

permetteteci di usare il femminile per tutte le persone presenti in questa piazza. Abbiamo la fortuna, e lo diremo dopo, di non essere, nessuna di noi, un vero uomo.

Abbiamo la fortuna di poter riflettere, e di poter scegliere come parlare — e abbiamo preferito il femminile.

Oggi a Milano il pride “ufficiale”, quello dominato dalle multinazionali che sfruttano il nostro lavoro e i nostri consumi, si è trasformato in cuori bianchi in piazza Duomo. Bello l’amore sì, ma chi se lo può permettere? — noi siamo qui per ricordarci quanto è difficile il percorso che ci porta alla libertà di amare.

È una libertà che si conquista attraverso la libertà di avere una casa, di avere tempo libero dal lavoro, di avere salute fisica e pace mentale. È libertà dalla violenza eteropatriarcale e dello stato. È libertà di lavorare, per chi lavora nel sesso; libertà di migrare per chi cambia paese, senza stigma e senza razzismo. Ed è libertà nelle relazioni, che non si riducono alla coppia e alla famiglia. È libertà di ripensare quello che vuole dire amore e di capire che le nostre relazioni e i nostri affetti si basano principalmente sull’aiuto reciproco, sul mutualismo, sulla sorellanza, sul consenso. Non su un’idea di amore romantico fatto di cuori – bianchi, arcobaleno o di qualsiasi altro colore. E le nostre relazioni e i nostri affetti non si basano neanche su un matrimonio che ci costringe negli schemi eteropatriarcali. Gli stessi schemi che tanto vorremmo abbattere.

Libertà vuol dire libertà di avere un tetto sopra la testa. Non solo avere posti dove ci vendono da bere, ma poter avere una casa. Per arrivare a questa libertà dobbiamo contrastare lo sfruttamento turistico della città, fosse anche arcobaleno, che rende gli affitti inaccessibili, i prezzi delle case inarrivabili, le case popolari e le occupazioni attentati al decoro, da cancellare dal panorama cittadino con sgomberi. Vuol dire che dobbiamo contrastare l’immaginario per cui saremo felici solo se potremo sposarci o diventare genitore1-genitore2 (e genitore3-genitore4 quando?), e invece saremmo promiscue se abbiamo tre amanti e facciamo le orge oppure sfigate e frigide se non vogliamo scopare.

Vuol dire che dobbiamo poter acccedere agli esami e alle terapie per tutte le malattie sessualmente trasmissibili, in maniera anonima e gratuita, e senza permettere che il personale medico ci giudichi per la nostra condotta. E non parliamo solo di HIV, o di PrEP, ma anche di papilloma virus, di epatite A, di epatite C, di sifilide, di gonorrea.

Ci siamo riunite in assemblee milanesi e nazionali dalla fine dello scorso pride. Abbiamo deciso che era arrivato il momento di unire le nostre forze e far sentire insieme le nostre voci, di dare visibilità alla nostra lotta per una società più simile a quella che sogniamo, e che sognando e lottando viviamo.

Siamo nate per contrastare una fiera pubblicitaria del turismo ghei e lesbico, siamo cresciute fino a diventare un grande percorso collettivo, una grande marcia, appunto una Marciona. E questa Marciona adesso si muove in varie città, a Bologna, a Bergamo, a Roma e qui a Milano, animata da decine di realtà, moltissime soggettività, cagne sciolte, frocie perse, cose marce. E siamo marce, perché rappresentiamo tutto quello che il privilegio patinato di certe rivendicazioni maschiliste e borghesi, anche se vestite di arcobaleno, nasconde e disprezza — troppo promiscue o troppo caste, troppo sobrie o troppo drogate, troppo ambigue o troppo straniere, o troppo animali. Ma non siamo allo zoo, anzi – noi gli zoo li vogliamo abbattere e, come ogni animale, non vogliamo essere in gabbia.

Siamo invendibili e ce lo rivendichiamo — SIAMO MARCE, NON MERCE!

* * *

No, non siamo veri uomini. Se la verità del genere e del sesso è quella che stabilisce la medicina che mutila i corpi intersessuali alla nascita, se è quella che ci insegnano di persone che fanno la maglia e altre che pilotano gli aerei, noi preferiamo un’altra verità.

Per questo non c’è neanche un vero uomo tra di noi. Chiediamolo ai nostri fratelli ghei pestati di botte, se se lo sono mai sentito dire, “non sei un vero uomo”. Chiediamolo alle nostre amiche e amici trans, se sono “veri uomini”. Chiediamolo alle amiche lesbiche, alle amiche bisessuali, chiediamolo alle donne. Chiediamolo ai maschi eterosessuali che però lottano con noi, che devono sentirsi dire che fanno cose da donne, che fanno cose da froci.

No, non siamo veri uomini, e se essere uomini è la mascolinità tossica e violenta dentro cui siamo state costrette a vivere, tante grazie — meglio così. Certo, stiamo generalizzando, e usando un genere solo per tutte le persone presenti. Non lo facciamo per appropriarci del femminile, non lo facciamo per sovradeterminare le scelte di genere individuali.

Se per secoli è andato bene che anche un solo uomo nella stanza bastasse per farci usare il maschile, be’ a noi basta anche una sola donna a farci usare tutte il femminile.

Ce lo insegnano alcune amiche femministe: uomo e donna sono categorie di oppressione, catene. E noi queste catene, care amiche e care amiche, adesso le usiamo per giocare, ma siamo qui per spezzarle. E quindi, ce ne andiamo belle, femminili, e plurali, in grande leggerezza!

***

Oggi a Milano vi proponiamo una non biciclettata in cinque tappe

– La prima è questa qui a PT

– La seconda sotto il palazzo della Regione Lombardia — dove parleremo di cura

– La terza ai giardini Gregor Mendel, sul lato di viale Sondrio — dove ricorderemo Sara e Patrick

– La quarta in stazione centrale — dove parleremo di privilegio bianco

– La quinta e ultima sarà in via Lecco — dove parlaremo di omonormatività

Distanziamento sociale e distanziamento fisico. La nostra è una rete solidale, che si basa sulla vicinanza e il rispetto reciproco. La nostra distanza sociale vuole essere zero. Su quella fisica chiediamo consenso, consapevolezza, attenzione. Sappiamo come si può contrarre il covid – così come sulla nostra pelle abbiamo imparato a conoscere come si diffondono mille altre infezioni – e nei presidi di oggi vi invitiamo a fare attenzione a prendere tutte le precauzioni che ritenete necessarie.

***

La non-biciclettata queer-femminista-trans delle marcione esprime piena solidarietà ai movimenti antirazzisti e alle lotte delle persone razzializzate. Da circa un mese la lotta del Movimento Black Lives Matter si è intensificata dopo l’uccisione di George Floyd e accogliamo con gioia la forza che trasmette. La nostra solidarietà è estesa anche alle rivolte contro il sistema di supremazia bianca e il colonialismo, la rabbia delle persone afroamericane e razzializzate si è indirizzata anche contro il Sistema Capitalista — perché il capitalismo trae forza dal razzismo.

Non commettiamo l’errore di pensare che il razzismo di Stato si verifichi altrove (negli stati uniti) e solo quando uno sbirro uccide una persona di colore. Quest’Italia bella finge di non vedere quanto odia tutte le persone che non sono abbastanza etero o abbastanza italiane. Tutt’al più le tratta con sufficienza, come un fenomeno di colore.

Anche nei CPR italiani, Centri di Permanenza per il Rimpatrio, le persone senza documenti, moltissime delle quali razzializzate, si sono rivoltate e hanno distrutto le strutture che le tenevano prigioniere, portando molte volte alla chiusura dei centri. I CPR sono luoghi di detenzione amministrativa, centri di xenofobia istituzionalizzata. Noi a questi movimenti, a queste ribellioni, portiamo solidarietà. Sappiamo benissimo che tutti i centri di detenzione, tutti i carceri e le prigioni, spesso, troppo spesso, non fanno altro che escludere dalla società le persone che già sono private dei privilegi di razza e di classe.

 

Le politiche sull’immigrazione nei paesi occidentali sono forme di violenza razzista e vanno combattute. Vanno combattute perché legittimano le aggresioni fisiche e verbali contro le persone razzializzate, attizzano il fuoco del pregiudizio, dell’ignoranza e dell’odio, e ostacolano la solidarietà e la libertà che per cui vogliamo vivere e lottare.

Il razzismo è una questione queer: le persone razzializzate che sono bisessuali, trans*, lesbiche, gay esistono e devono affrontare, oltre al razzismo, anche tutto l’odio, il disprezzo e la condanna sociale chiamati lesbofobia, bifobia, transfobia, omofobia e bigottismo. Ricordiamo prima che fobie o paure, queste sono forme di odio. È indispensabile una lotta frocia che tenga conto anche di come il razzismo costruisce e controlla le nostre identità e le nostre vite.

SOLIDARIETÀ QUEER CONTRO OGNI FORMA DI RAZZISMO!

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PRENDIAMOCI CURA DI LORO, PRENDIAMOCI CURA DI NOI /// riflessioni sopra e sotto la Regione Lombardia

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

In questi ultimi mesi la cura è entrata al centro di ogni dibattito, tutti parlano di cura, tv, giornali, peccato che la parola “cura” sia sulla bocca di tutti nel peggiore dei modi possibili. La cura di cui si parla infatti è la cura che viene decisa dall’alto sui corpi e sulle vita di tutte noi, è una cura volta a proteggere i profitti, una cura che ci ha fatto tenere aperto il 50% delle attività produttive in questi due mesi, è una cura che si è agitata per aprire le fabbriche il prima possibile; è stata la cura di nascondere i dati epidemiologici, la cura di sacrificare con la retorica dell’eroe quello che noi tutte sappiamo già da tempo essere “lavoro essenziale”: badanti, infermiere, cleaners, sexworkers, riders, madri, gli schiavi delle consegne a domicilio, dentro cui ancora oggi scoppiano focolai senza alcun controllo. Attenzione – questa è la cura di cui si parla, la cura per gli interessi del capitale: il mantenimento del mito, di origine coloniale, di una produttività estrattiva senza fine, quello stesso produttivismo che ci ha portato ancora qui: all’ennesima crisi ambientale, sociale, economica.

Sappiamo però che questo “modello di cura” non è niente di nuovo. Le donne, le persone lgbtiqueer, le persone nere, le madri, tutti i corpi dentro cui si intrecciano linee di oppressione secolari, conoscono bene la doppia faccia della cura: da una parte attività che intreccia tempo, relazioni, saperi e tecnologie per garantire la riproduzione della vita e il mantenimento delle risorse del pianeta, dall’altra, la cura come mera ancella del capitalismo, motivo della sua stessa possibilità di esistenza. Mettiamola in questo modo: fino ad ora, la maggior parte del nostro lavoro di cura non retribuito, mal pagato e altamente invisibilizzato, è stato in funzione di curare le distorsioni del capitale, quelle che producono disuguaglianza, violenza e l’enorme quantità di distruzione di vite e territori. Senza di noi, che sì ci siamo tenute in vita, ma che anche abbiamo lavato i panni sporchi del capitale, questo modello produttivo crollerebbe: l’avevano capito molto bene le femministe già negli anni ’70.

E oggi, attraverso la pandemia di Covid-19, questa contraddizione è emersa in modo più esplicito, è chiarissima la guerra in corso tra modelli di cura, tra idee e pratiche della cura diametralmente opposte. Allora è arrivato il momento di scioperare da questo modello di cura, di pensare la cura come *IL* luogo del conflitto, come spazio dentro cui ribaltare le priorità, dentro cui scegliere noi cosa valga la pena continuare a riprodurre e cosa invece no. È arrivato il momento di approfondire le ragioni politiche della cura e di rafforzare la sua intrinseca natura anti-capitalista. Chi può vivere e come può vivere non può più essere una scelta relegata a qualche manciata di uomini ricchi e bianchi. Sì, prendiamoci cura di loro: andiamo a bruciargli e case.

Questo palazzo [la regione Lombardia, NdR] è la rappresentazione materiale di quando gli interessi privati abbiano occupato gli interessi pubblici, un pubblico che sappiamo essere ancora troppo stretto, che si definisce/scrive universale ma da molte prospettive si legge ancora parziale, un pubblico che non ci riconosce in quanto soggette. Le nostre lotte negli ultimi cinquant’anni non hanno fatto altro che allargare l’accesso al pubblico: AIDS, consultorie, aborto, ormoni, sono tutti pezzi della nostra storia contro l’estrattivismo da corpi e territori e per la democratizzazione e l’universalità dell’accesso alle cure.

Anche in questi mesi abbiamo continuato a lottare, per esempio garantendo l’accesso all’aborto per lu compagnu che ne avevano bisogno, ci siamo passate ormoni là dove erano spariti, abbiamo imparato a sintetizzarli, ci siamo curate a vicenda, abbiamo agito secondo un principio di autoresponsabilizzazione collettiva per il contenimento del contagio, di autogestione critica del distanziamento fisico – nella consapevolezza che per le donne e le persone lgbtiqueer essere isolate a casa ha rappresentato un arretramento nei propri percorsi di autodeterminazione. Loro ci vogliono semimorte, un po’ vive per servire, un po’ morte per tacere. E allora combattere per e con cura significa lottare per l’accesso universale alla salute pubblica, alla ricchezza e alle scuole; lottare contro la violenza della polizia e dei governi; lottare contro lo sfruttamento di comunità, terre e risorse comuni – in una parola, lottare contro l’accumulazione e la proprietà. Prendersi cura è lottare contro la gestione necropolitica delle nostre vite e lottare è prendersi cura della ridistribuzione della vita sulla terra.

 

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RIFLESSIONI SUL PRIVILEGIO BIANCO /// dove capiamo che i tornelli non girano per tuttx allo stesso modo

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Siamo in stazione centrale, luogo simbolo della frontiera nella città di milano. Questo è il luogo dove il razzismo si concretizza in forme istituzionalizzate dallo Stato, viene qui normalizzato e si manifesta quotidianamente con le retate, i controlli dei documenti, i fermi, ma anche con forme striscianti di discriminazione. Tutt attraversano questo luogo per transitare, ma sembra che alcun abbiano più diritto di altr: i tornelli non girano per tuttx allo stesso modo.

Questa riflessione sul privilegio bianco parte da un profondo disprezzo per il razzismo, la xenofobia, il colonialismo e ogni sistema di oppressione che stabilisca gerarchie basate sul colore della pelle o sullo status dei nostri documenti o della nostra cittadinanza. Per non riprodurre dinamiche paternaliste, riteniamo indispensabile un percorso di autocritica e consapevolezza. Partiamo da noi, persone bianche queer: partiamo smascherando il nostro privilegio bianco. Privilegio bianco è NON avere un colore della pelle, essere la norma. Il privilegio bianco produce ovunque “un centro” e con esso la sua marginalità. Privilegio bianco significa essere sempre a posto, non in pericolo, non a disagio, in una posizione che ha già neutralizzato il conflitto e le diversità.

Essere consapevoli del proprio privilegio bianco può essere il punto di partenza per rompere questa neutralità e normatività. Impariamo a zittire questo privilegio e lasciare spazio alle voci delle persone razzializzate.

Costruiamo insieme relazioni orizzontali, costruiamo insieme lotta, amore e rabbia.

 

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Ora sti privilegi ce li diciamo:

 

  • Io ho il privilegio di non venire fermata dagli sbirri per il controllo dei documenti solo per il colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di non sentire battute che prendono in giro le persone della mia etnia
  • Io ho il privilegio di non vedere rappresentazioni (sui mass media) stereotipate di persone che hanno il mio colore di pelle
  • Io ho il privilegio di poter facilmente regalare ai miei nipoti dei libri che abbiano dei personaggi della loro etnia
  • Io ho il privilegio di non sentirmi in obbligo di rappresentare un intero gruppo sulla base del colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di essere un individuo non una categoria ambulante spersonalizzata
  • Io ho il privilegio di essere retribuit* con un salario migliore e di avere accesso (non sempre) a degli ammortizzatori sociali non previsti per chi non ha la mia stessa cittadinanza
  • Io ho il privilegio di mandare un curriculum vitae senza preoccuparmi di pensare al poter essere discriminata
  • Io ho il privilegio del valore internazionale del mio titolo di studio
  • Io ho il privilegio di non subire pregiudizi sulla mia intelligenza o sulla mia capacita’ di parlare italiano, nell’interazione quotidiana con le altre persone
  • Io ho il privilegio di poter urlare senza essere accusat* o zittit*
  • Io ho il privilegio di non sentirmi dire come protestare
  • Io ho il privilegio di sentirmi a casa in ogni dove.
  • Io ho il privilegio di pensare di disporre delle risorse, della terra, delle comunità, delle culture, come mie risorse
  • Io ho il privilegio di poter chiedere e ricevere aiuto quando ne ho bisogno
  • Io ho il privilegio di non essere esotic*.
  • Io ho il privilegio di non vedere considerate le mie forme, i miei capelli e i miei tratti somatici come dei difetti
  • Io ho il privilegio di passare inosservata
  • Io ho il privilegio di non subire violenza fisica a causa del colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di non dover dimostrare di non essere una persona pericolosa
  • Io ho il privilegio di potermi fumare una canna senza essere considerata una spacciatrice perché sono bianca
  • Io ho il privilegio di poter salire sul treno con una bici senza venire arrestat
  • Io ho il privilegio di essere nata in un paese non in guerra (perché la sua pace è possibile grazie alle guerre portate avanti altrove)

 

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Decostruire non basta, bisogna trovare il modo di agire per trasformare il mondo, non basta riconoscere il proprio privilegio bianco bisogna rompere il silenzio e prendere una posizione, inclusione e partecipazione non appropriazione o feticizzazione. Abbiamo bisogno di un movimento queerfemministatrans non oppressivo e che estirpi le radici razziste e xenofobe dell’eteropatriarcato. Creiamo alleanze e complicità con i nostri sorelli e le nostre sfratelle razzializzate, la lotta fica e cula vibra con i loro corpi e le loro voci.

LA SOLIDARIETÀ QUEER DISTRUGGE LE FRONTIERE!

 

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VIA LECCA /// il discorso con cui chiudiamo, per aprirci a nuove avventure

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Care amiche e care amiche,

care amiche strane,

care amiche queer,

care amiche trans*,

care amiche e basta,

e anche voi,

caro gheo medio e cari ghei medi, care amiche lesbo chic e lesbo meno chic, care frociarole e anche tu,

carissima Milano da bere, e da stendere, e da fumare: come va?

Vi parla la Marciona, le vostre amiche strane, quelle queer, quelle più o meno trans, quelle bo.

 

Ci siamo mobilitate, ci siamo messe in marcia per trovare nuove direzioni per la Locomotiva d’Italia – Milano, sì, Milano. Ci siamo rese conto che questa città, più di ogni altra in Italia, si basa sullo sfruttamento intensivo delle nostre vite. Quando abbiamo lasciato le case dove ci hanno allevate, che fossero qui a Milano o in qualche paesino degli Appennini, delle Ande o dell’Africa lontana, abbiamo capito una cosa.

Abbiamo capito che questo grande open-space, quest’azienda a cielo aperto, questo grande autogrill che ci spacciano come “la città europea” del fecondo Nord, è invece un allevamento intensivo di forza lavoro. Siamo ingabbiate in case troppo costose, o per strada costrette a ritagliarci spazi tra le auto, all’ombra di palazzi senza alberi. Se siamo impiegate, se un lavoro ce l’abbiamo, magari siamo chiuse quaranta ore in un ufficio, costrette a prendere droghe e medicinali per lavorare, per dormire, per uscire, per scopare.

L’amministrazione cittadina promuove un’immagine di Milano europea, aperta, cosmopolita, all’avanguardia. A noi sembra però che queste politiche riguardino solo la clientela cittadina o del turismo, di chi può permettersi lo shopping della moda, o il mercato degli appartamenti. Case svuotate per far spazio al turismo, mentre la fascia di popolazione non privilegiata, anche e non solo queer, viene allontanata nelle periferie o rinchiusa in case ripostiglio, in attesa della prossima gentrificazione. Ci aspettiamo che il Comune metta in atto misure di contenimento per la devastazione provocata dagli AirBnB? Rendiamoci conto che invece sta promuovendo l’immagine di Milano città aperta al turismo (anche gay e lesbico).

L’amministrazione comunale si presenta come avanguardia, ma invece altro non è che la solita discriminazione per classi economiche. Assomiglia più ai triangoli rosa dell’omocausto che agli arcobaleni.

E qui nel perimetro del Lazzaretto adesso sorge il distretto arcobaleno, il rainbow district. Ricordiamo che il Rainbow district è una associazione di esercenti, dei padroni dei locali che somministrano alcolici qui in zona.

A molte di noi non dispiace che esistano locali arcobaleno, ma tutte noi siamo molto perplesse su quale tipo di socialità si promuove in questa zona.

Per noi non essere eterosessuali significa vivere la società secondo altre regole. Non costruire una vita omosessuale modellata sulla base di quella etero.

Matrimoni, famiglie, figli, monogamia, culto del corpo scultoreo e disprezzo di tutto ciò che è diverso (troppo grasso, troppo magro — vi ricordate i profili su grindr? non grassi, non vecchi, non asiatici, solo italiani)… Quando siamo qui, in mezzo agli arcobaleni, ce lo chiediamo, e lo chiediamo a tutte voi — questi arcobaleni ci liberano davvero dalle oppressioni razziste e classiste?

Questo nuovo Lazzaretto, che chiamano rainbow district, è uno spazio liberato in cui viviamo le vite che vogliamo, o semplicemente una miniera di profitto? chiediamocelo, qual è il discorso politico in queste strade? si parla di come siamo vestite, o di come possiamo liberarci dalla schiavitù dell’industria della moda? Si parla di comprare una seconda casa, o di occuparne una? si parla di fare carriera in azienda, o di sfruttamento del lavoro? Si parla di vacanze a Tel Aviv, o di colonialismo?

Vacanze a Tel Aviv, a Città del Capo, a colpi di feste in discoteche costruite letteralmente sui cadaveri di popolazioni oppresse. Questi sono i falsi colori arcobaleno di una finta libertà che negli anni ci vendono sempre più le multinazionali e le agenzie del turismo di massa. Questo è capitalismo mascherato da libertà, questa è solo una nuova forma di oppressione coloniale.

Lo ricordiamo in coro: Al largo della Libia, sul fondo dell’Egeo, giace il privilegio di ogni europeo!

***

Sulle casacche degli uomini gay e bisessuali internati nei campi di concentramento nazisti un triangolo rosa veniva cucito in spregio alla loro femminilità. Negli anni ci siamo riappropriate, come movimenti lgbtqi+, del triangolo rosa, che è diventato prima simbolo della lotta contro lo stigma verso le persone sieropositive, e della lotta per l’accesso alle terapie e più recentemente di tutta la violenza perpetrata contro i corpi non conformi alla norma etero e cis: lesbiche, froci, trans, intersessuali, bisessuali, asessuali, queer.

Per questo abbiamo appeso un triangolo rosa, qui al margine del Lazzaretto, del rainbow district, della Milano arcobaleno. Perché di omonormatività si muore. È solo un altro nome di quella che chiamano omofobia, è solo un altro nome di quello che chiamiamo eteropatriarcato.

Il triangolo rosa ci ricorda che le aggressioni di stampo sessuale e la violenza di genere uccidono ancora, che la violenza è anche verbale, è prendere in giro la lesbica camionista, la trans ambigua, la frocia cicciona, la passiva sfranta, e che troppo spesso proprio dentro i nostri recinti arcobaleno tiriamo su ancora più alte le sbarre delle nostre prigioni. Noi non ci vogliamo mettere dalla parte dei nostri carnefici. I triangoli rosa non li vogliamo cucire addosso ai nostri sorelli e fratelle.

Si parla oggi di nuove leggi contro l’omotransfobia. Ma non crediamo che inasprire le pene o riempire le galere sia la soluzione ai nostri problemi. Viviamo male, soffriamo o moriamo perché la nostra società è intrisa di violenza eteropatriarcale.

Perché il governo decide di varare leggi in nostro nome? per benevolenza o per interesse politico? Perché lo stesso governo che dichiara di voler tutelare le persone “queer” (bianche o con cittadinanza italiana) è lo stesso che rinchiude le persone senza documenti (e sicuramente tra queste persone ci saranno persone queer) in centri di detenzione? L’ipocrisia dello Stato è un tranello in cui rischiamo di cadere.

Contrastare la violenza eteropatriarcale è una lotta di tutti i giorni, perché la violenza è quotidiana e strutturale. Le aggressioni fisiche compiute da singoli individui sono solo la punta dell’iceberg; l’omofobia è principalmente di stato, comincia nelle famiglie, cresce nelle scuole, e finisce nelle prigioni.

Vogliamo che le nostre comunità possano dotarsi di strumenti di informazione e di crescita, di sviluppo individuale e collettivo, per eliminare alla radice le basi della violenza. Dai centri antiviolenza, ai consultori, ai percorsi di formazione e di accesso al lavoro del personale nelle scuole, alla distribuzione capillare sul territorio delle risorse: formiamo e assumiamo insegnanti, apriamo le scuole, autogestiamo la formazione. Ce lo insegna oggi più che mai la riduzione dell’acceso alle strutture scolastiche in tempo di pandemia. Ce lo insegna oggi più che mai il disastro sanitario di una Lombardia senza posti letto in terapia intensiva. Sradicare la violenza comincia dal seminare benessere.

Questo voler vivere nell’uguaglianza, dimenticando che in realtà è fatta di costrizione e privilegio, questa cosa si chiama omonormatività. Si chiama omonormatività e noi la rifiutiamo.

Davvero abbiamo bisogno di uguaglianza invece che di libertà? Noi ci rivendichiamo la libertà di essere diverse, di essere strane, di essere marce. Noi ci rivendichiamo le nostre vite irregolari, le nostre sessualità storte, i nostri corpi e i nostri vestiti né da uomo né da donna — queste sono le basi della società che vogliamo. Una società che non ci obbligherà a chiamarci etero od omosessuali, a definirci in base ai nostri affetti e alla nostra sessualità.

Viviamo tutte in una società che ha un disperato bisogno di definirci, di incasellarci. Maschi e femmine, uomini e donne, adulti e bambini, cis e trans, etero e omo, umano e animale, naturale e artificiale, bianco e nero…

No! che succede se ne facciamo un po’a meno? che succede se proviamo a giocare con altre regole? chi ci perde? noi, o chi cerca di trarre profitto dalle nostre vite in gabbia? non vediamo forse nelle galline in batteria la stessa prepotenza e le stesse sevizie che vediamo nello sfruttamento capitalista del lavoro?

Veniamo sfruttate come bestie, ma non allo stesso modo degli animali allevati e torturati per la loro carne, le loro uova, la loro pelle, ma in un certo senso lo sfruttamento dei nostri corpi e della nostra forza lavoro è paragonabile a quello imposto agli animali, si potrebbe anche dire che molte di noi vengono animalizzate. E adesso ci vorrebbero magari vendere anche un bel safari in India per gay e lesbiche? diciamo no, grazie!

Per noi essere frocie, essere trans, essere lesbiche, essere bisessuali, vuol dire soprattutto avere uno sguardo critico sulla società etero, cis, patriarcale e sulle sue sbarre mascherate da senso del decoro. Vuol dire capire che la discriminazione e oppressione che viviamo è collegata ad altre forme di dominio, come il razzismo, lo specismo e il capitalismo. Vuol dire rifiutare di essere integrate e assimilate in un sistema che è basato sulla violenza. Vuol dire ribellarsi e lottare, esprimere la nostra rabbia contro un mondo che ci odia, uscire dagli schemi prestabiliti e violare la Legge creata per proteggere la proprietà privata, il maschilismo e la norma eterosessuale. Amiche, essere queer per noi è non essere da sole in questa lotta. È ritrovarci nelle strade, in cucina o nelle camere da letto.

Care amiche e care amiche, grazie di essere state con noi. Questa era la non biciclettata di Marciona Milano. Trovate in giro i nostri volantini, e in rete la nostra blogga (marciona.noblogs.org). Non siamo sole, non siete sole in questa lotta. Veniamoci a trovare!

♥

 

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IL TRIANGOLO ROSA /// omonormatività, quotidiano omocausto

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Sulle casacche degli uomini gay internati nei campi di concentramento nazisti un triangolo rosa veniva cucito in spregio alla loro femminilità. Negli anni ci siamo riappropriatx come movimenti lgbtqi+ del triangolo rosa dell’omocausto, che è diventato simbolo di tutta la violenza perpetrata contro i corpi non conformi alla norma etero e cis: lesbiche, froci, trans, interessessuali, bisessuali, asessuali, queer…
L’eterosessualità obbligatoria e il binarismo di genere imposto dalla cultura eteropatriarcale definiscono tutti i giorni e sulle vite di tutt* noi, etero e non, la violenza che chiamiamo eteronormatività.
Si parla invece di omonormatività quando questi codici eteronormanti modellano il nostro concetto di omosessualità, rendendolo presentabile, accettabile, assimilabile alla società eterosessuale. Sì, parliamo del maschio gay bianco, muscoloso, abile, magari sposato e con figli. Parliamo anche della lesbica vestita bene, bianca pure lei, fedele al modello capitalista di donna in carriera senza difficoltà economiche.
L’omonormatività si manifesta in quel ripiegamento a una dimensione individuale o che riproduce la forma della famiglia eteronormata, voltando le spalle alla dimensione collettiva, al generare parentele, all’essere solidali con le lotte che diventano, in una prospettiva anestetizzata, “le lotte degli altri”. Questa omonormatività la vediamo rappresentata sulle locandine dei pride di mezzo mondo, pride dimentichi di essere nati dall’urlo di donne trans di colore lavoratrici sessuali in una rivolta contro la violenza della polizia.
Abbiamo portato avanti molte lotte e portato a casa molte vittorie come movimenti lgbtqi+ nella nostra storia. Ma molte di queste vittorie si sono sbiadite nei processi di assimilazione, adattandosi al sistema dominante; processi dei quali spesso (e spesso inconsapevolmente) noi tuttx siamo complici.
La violenza del sistema si è insinuata tra di noi e ha trovato all’interno della nostra stessa comunità le alfiere e gli ancelli della “norma”. La violenza omolesbobitransqueerfobica è anche tra noi: la propiniamo quotidianamente alle nostre fratelle, ai nostri sorelli e a noi stessx, tuttx culturalmente assoggettatx dall’omonormatività. La propaghiamo quotidianamente attraverso il sistematico disprezzo della femminilità, attraverso il ridicolizzare i corpi fuori dai canoni estetici dominanti, nella reiterazione di pregiudizi razziali ed etnici, nella violenza verbale delle nostre chiacchiere da bar o dei testi sui nostri profili per rimorchiare sul telefono. In molti aspetti di ciò che pensiamo definisca la nostra sessualità si palesa la tensione ossessiva di raggiungere quel modello di maschio-gay-bianco-muscoloso-abile-ricco – magari pure sposato e con figli – che incarna la norma, il decoro, ciò che è accettabile, appunto l’omonormato.
La tensione al raggiungimento di questo modello astratto e inarrivabile si traduce in repulsione del corpo non conforme, del corpo grasso, magro, nero, marrone, giallo, non abile, povero, troppo o non abbastanza effeminato. Ma questa violenza omonormativa, che continuamente performiamo a partire dal nostro linguaggio, non è omosessualità. Questa violenza non è libertà. Questa violenza non è motivo di nessun orgoglio e nessun pride.
Questa violenza omonormativa è continuare a cucire quel triangolo rosa addosso alle nostre fratelle e i nostri sorelli, diventando tuttx noi artefici ogni giorno di un continuo omocausto.
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voglia di nero su bianco? scarica la piddièffa

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