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Categoria: ARCHIVIO

PRENDIAMOCI CURA DI LORO, PRENDIAMOCI CURA DI NOI /// riflessioni sopra e sotto la Regione Lombardia

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

In questi ultimi mesi la cura è entrata al centro di ogni dibattito, tutti parlano di cura, tv, giornali, peccato che la parola “cura” sia sulla bocca di tutti nel peggiore dei modi possibili. La cura di cui si parla infatti è la cura che viene decisa dall’alto sui corpi e sulle vita di tutte noi, è una cura volta a proteggere i profitti, una cura che ci ha fatto tenere aperto il 50% delle attività produttive in questi due mesi, è una cura che si è agitata per aprire le fabbriche il prima possibile; è stata la cura di nascondere i dati epidemiologici, la cura di sacrificare con la retorica dell’eroe quello che noi tutte sappiamo già da tempo essere “lavoro essenziale”: badanti, infermiere, cleaners, sexworkers, riders, madri, gli schiavi delle consegne a domicilio, dentro cui ancora oggi scoppiano focolai senza alcun controllo. Attenzione – questa è la cura di cui si parla, la cura per gli interessi del capitale: il mantenimento del mito, di origine coloniale, di una produttività estrattiva senza fine, quello stesso produttivismo che ci ha portato ancora qui: all’ennesima crisi ambientale, sociale, economica.

Sappiamo però che questo “modello di cura” non è niente di nuovo. Le donne, le persone lgbtiqueer, le persone nere, le madri, tutti i corpi dentro cui si intrecciano linee di oppressione secolari, conoscono bene la doppia faccia della cura: da una parte attività che intreccia tempo, relazioni, saperi e tecnologie per garantire la riproduzione della vita e il mantenimento delle risorse del pianeta, dall’altra, la cura come mera ancella del capitalismo, motivo della sua stessa possibilità di esistenza. Mettiamola in questo modo: fino ad ora, la maggior parte del nostro lavoro di cura non retribuito, mal pagato e altamente invisibilizzato, è stato in funzione di curare le distorsioni del capitale, quelle che producono disuguaglianza, violenza e l’enorme quantità di distruzione di vite e territori. Senza di noi, che sì ci siamo tenute in vita, ma che anche abbiamo lavato i panni sporchi del capitale, questo modello produttivo crollerebbe: l’avevano capito molto bene le femministe già negli anni ’70.

E oggi, attraverso la pandemia di Covid-19, questa contraddizione è emersa in modo più esplicito, è chiarissima la guerra in corso tra modelli di cura, tra idee e pratiche della cura diametralmente opposte. Allora è arrivato il momento di scioperare da questo modello di cura, di pensare la cura come *IL* luogo del conflitto, come spazio dentro cui ribaltare le priorità, dentro cui scegliere noi cosa valga la pena continuare a riprodurre e cosa invece no. È arrivato il momento di approfondire le ragioni politiche della cura e di rafforzare la sua intrinseca natura anti-capitalista. Chi può vivere e come può vivere non può più essere una scelta relegata a qualche manciata di uomini ricchi e bianchi. Sì, prendiamoci cura di loro: andiamo a bruciargli e case.

Questo palazzo [la regione Lombardia, NdR] è la rappresentazione materiale di quando gli interessi privati abbiano occupato gli interessi pubblici, un pubblico che sappiamo essere ancora troppo stretto, che si definisce/scrive universale ma da molte prospettive si legge ancora parziale, un pubblico che non ci riconosce in quanto soggette. Le nostre lotte negli ultimi cinquant’anni non hanno fatto altro che allargare l’accesso al pubblico: AIDS, consultorie, aborto, ormoni, sono tutti pezzi della nostra storia contro l’estrattivismo da corpi e territori e per la democratizzazione e l’universalità dell’accesso alle cure.

Anche in questi mesi abbiamo continuato a lottare, per esempio garantendo l’accesso all’aborto per lu compagnu che ne avevano bisogno, ci siamo passate ormoni là dove erano spariti, abbiamo imparato a sintetizzarli, ci siamo curate a vicenda, abbiamo agito secondo un principio di autoresponsabilizzazione collettiva per il contenimento del contagio, di autogestione critica del distanziamento fisico – nella consapevolezza che per le donne e le persone lgbtiqueer essere isolate a casa ha rappresentato un arretramento nei propri percorsi di autodeterminazione. Loro ci vogliono semimorte, un po’ vive per servire, un po’ morte per tacere. E allora combattere per e con cura significa lottare per l’accesso universale alla salute pubblica, alla ricchezza e alle scuole; lottare contro la violenza della polizia e dei governi; lottare contro lo sfruttamento di comunità, terre e risorse comuni – in una parola, lottare contro l’accumulazione e la proprietà. Prendersi cura è lottare contro la gestione necropolitica delle nostre vite e lottare è prendersi cura della ridistribuzione della vita sulla terra.

 

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RIFLESSIONI SUL PRIVILEGIO BIANCO /// dove capiamo che i tornelli non girano per tuttx allo stesso modo

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Siamo in stazione centrale, luogo simbolo della frontiera nella città di milano. Questo è il luogo dove il razzismo si concretizza in forme istituzionalizzate dallo Stato, viene qui normalizzato e si manifesta quotidianamente con le retate, i controlli dei documenti, i fermi, ma anche con forme striscianti di discriminazione. Tutt attraversano questo luogo per transitare, ma sembra che alcun abbiano più diritto di altr: i tornelli non girano per tuttx allo stesso modo.

Questa riflessione sul privilegio bianco parte da un profondo disprezzo per il razzismo, la xenofobia, il colonialismo e ogni sistema di oppressione che stabilisca gerarchie basate sul colore della pelle o sullo status dei nostri documenti o della nostra cittadinanza. Per non riprodurre dinamiche paternaliste, riteniamo indispensabile un percorso di autocritica e consapevolezza. Partiamo da noi, persone bianche queer: partiamo smascherando il nostro privilegio bianco. Privilegio bianco è NON avere un colore della pelle, essere la norma. Il privilegio bianco produce ovunque “un centro” e con esso la sua marginalità. Privilegio bianco significa essere sempre a posto, non in pericolo, non a disagio, in una posizione che ha già neutralizzato il conflitto e le diversità.

Essere consapevoli del proprio privilegio bianco può essere il punto di partenza per rompere questa neutralità e normatività. Impariamo a zittire questo privilegio e lasciare spazio alle voci delle persone razzializzate.

Costruiamo insieme relazioni orizzontali, costruiamo insieme lotta, amore e rabbia.

 

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Ora sti privilegi ce li diciamo:

 

  • Io ho il privilegio di non venire fermata dagli sbirri per il controllo dei documenti solo per il colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di non sentire battute che prendono in giro le persone della mia etnia
  • Io ho il privilegio di non vedere rappresentazioni (sui mass media) stereotipate di persone che hanno il mio colore di pelle
  • Io ho il privilegio di poter facilmente regalare ai miei nipoti dei libri che abbiano dei personaggi della loro etnia
  • Io ho il privilegio di non sentirmi in obbligo di rappresentare un intero gruppo sulla base del colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di essere un individuo non una categoria ambulante spersonalizzata
  • Io ho il privilegio di essere retribuit* con un salario migliore e di avere accesso (non sempre) a degli ammortizzatori sociali non previsti per chi non ha la mia stessa cittadinanza
  • Io ho il privilegio di mandare un curriculum vitae senza preoccuparmi di pensare al poter essere discriminata
  • Io ho il privilegio del valore internazionale del mio titolo di studio
  • Io ho il privilegio di non subire pregiudizi sulla mia intelligenza o sulla mia capacita’ di parlare italiano, nell’interazione quotidiana con le altre persone
  • Io ho il privilegio di poter urlare senza essere accusat* o zittit*
  • Io ho il privilegio di non sentirmi dire come protestare
  • Io ho il privilegio di sentirmi a casa in ogni dove.
  • Io ho il privilegio di pensare di disporre delle risorse, della terra, delle comunità, delle culture, come mie risorse
  • Io ho il privilegio di poter chiedere e ricevere aiuto quando ne ho bisogno
  • Io ho il privilegio di non essere esotic*.
  • Io ho il privilegio di non vedere considerate le mie forme, i miei capelli e i miei tratti somatici come dei difetti
  • Io ho il privilegio di passare inosservata
  • Io ho il privilegio di non subire violenza fisica a causa del colore della mia pelle
  • Io ho il privilegio di non dover dimostrare di non essere una persona pericolosa
  • Io ho il privilegio di potermi fumare una canna senza essere considerata una spacciatrice perché sono bianca
  • Io ho il privilegio di poter salire sul treno con una bici senza venire arrestat
  • Io ho il privilegio di essere nata in un paese non in guerra (perché la sua pace è possibile grazie alle guerre portate avanti altrove)

 

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Decostruire non basta, bisogna trovare il modo di agire per trasformare il mondo, non basta riconoscere il proprio privilegio bianco bisogna rompere il silenzio e prendere una posizione, inclusione e partecipazione non appropriazione o feticizzazione. Abbiamo bisogno di un movimento queerfemministatrans non oppressivo e che estirpi le radici razziste e xenofobe dell’eteropatriarcato. Creiamo alleanze e complicità con i nostri sorelli e le nostre sfratelle razzializzate, la lotta fica e cula vibra con i loro corpi e le loro voci.

LA SOLIDARIETÀ QUEER DISTRUGGE LE FRONTIERE!

 

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IL TRIANGOLO ROSA /// omonormatività, quotidiano omocausto

Posted on 2020/07/14 - 2024/04/11 by phrocissime

Sulle casacche degli uomini gay internati nei campi di concentramento nazisti un triangolo rosa veniva cucito in spregio alla loro femminilità. Negli anni ci siamo riappropriatx come movimenti lgbtqi+ del triangolo rosa dell’omocausto, che è diventato simbolo di tutta la violenza perpetrata contro i corpi non conformi alla norma etero e cis: lesbiche, froci, trans, interessessuali, bisessuali, asessuali, queer…
L’eterosessualità obbligatoria e il binarismo di genere imposto dalla cultura eteropatriarcale definiscono tutti i giorni e sulle vite di tutt* noi, etero e non, la violenza che chiamiamo eteronormatività.
Si parla invece di omonormatività quando questi codici eteronormanti modellano il nostro concetto di omosessualità, rendendolo presentabile, accettabile, assimilabile alla società eterosessuale. Sì, parliamo del maschio gay bianco, muscoloso, abile, magari sposato e con figli. Parliamo anche della lesbica vestita bene, bianca pure lei, fedele al modello capitalista di donna in carriera senza difficoltà economiche.
L’omonormatività si manifesta in quel ripiegamento a una dimensione individuale o che riproduce la forma della famiglia eteronormata, voltando le spalle alla dimensione collettiva, al generare parentele, all’essere solidali con le lotte che diventano, in una prospettiva anestetizzata, “le lotte degli altri”. Questa omonormatività la vediamo rappresentata sulle locandine dei pride di mezzo mondo, pride dimentichi di essere nati dall’urlo di donne trans di colore lavoratrici sessuali in una rivolta contro la violenza della polizia.
Abbiamo portato avanti molte lotte e portato a casa molte vittorie come movimenti lgbtqi+ nella nostra storia. Ma molte di queste vittorie si sono sbiadite nei processi di assimilazione, adattandosi al sistema dominante; processi dei quali spesso (e spesso inconsapevolmente) noi tuttx siamo complici.
La violenza del sistema si è insinuata tra di noi e ha trovato all’interno della nostra stessa comunità le alfiere e gli ancelli della “norma”. La violenza omolesbobitransqueerfobica è anche tra noi: la propiniamo quotidianamente alle nostre fratelle, ai nostri sorelli e a noi stessx, tuttx culturalmente assoggettatx dall’omonormatività. La propaghiamo quotidianamente attraverso il sistematico disprezzo della femminilità, attraverso il ridicolizzare i corpi fuori dai canoni estetici dominanti, nella reiterazione di pregiudizi razziali ed etnici, nella violenza verbale delle nostre chiacchiere da bar o dei testi sui nostri profili per rimorchiare sul telefono. In molti aspetti di ciò che pensiamo definisca la nostra sessualità si palesa la tensione ossessiva di raggiungere quel modello di maschio-gay-bianco-muscoloso-abile-ricco – magari pure sposato e con figli – che incarna la norma, il decoro, ciò che è accettabile, appunto l’omonormato.
La tensione al raggiungimento di questo modello astratto e inarrivabile si traduce in repulsione del corpo non conforme, del corpo grasso, magro, nero, marrone, giallo, non abile, povero, troppo o non abbastanza effeminato. Ma questa violenza omonormativa, che continuamente performiamo a partire dal nostro linguaggio, non è omosessualità. Questa violenza non è libertà. Questa violenza non è motivo di nessun orgoglio e nessun pride.
Questa violenza omonormativa è continuare a cucire quel triangolo rosa addosso alle nostre fratelle e i nostri sorelli, diventando tuttx noi artefici ogni giorno di un continuo omocausto.
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voglia di nero su bianco? scarica la piddièffa

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VERSO UN PRIDE TRANSFEMMINISTA QUEER

Posted on 2020/06/22 - 2024/04/11 by phrocissime

A seguito di una serie di partecipate assemblee transterritoriali nel contesto di Marciona2020, le realtà queer di molte città hanno scelto di portare in piazza una cornice di rivendicazioni comuni, così creando un coordinamento per i pride del 2020.

  1. IL PRIDE È RIVOLTA
  2. LA CURA È UNA LOTTA POLITICA
  3. OLTRE L’OMOTRANSFOBIA, CONTRO L’ETEROPATRIARCATO
  4. IL LAVORO SESSUALE È LAVORO
  5. UN PRIDE QUEER È UN PRIDE ANTIRAZZISTA
  6. NON ESISTONO DIRITTI CIVILI SENZA REDISTRIBUZIONE
  7. L’ISTRUZIONE È FONDAMENTALE
  8. IL PRIDE QUEER È ANTISPECISTA E AMBIENTALISTA
  9. LE TECNOLOGIE QUEER SONO AUTOGESTITE
  10. CALENDARIO PRIDE TFQ 2020
1. IL PRIDE È RIVOLTA
Nel vuoto determinato dall’assenza delle manifestazioni di pubblico spettacolo, delle sfilate di multinazionali, delle marce depoliticizzate che sono i Pride ufficiali, vogliamo rioccupare lo spazio pubblico, le piazze e le strade con i nostri corpi indecorosi, noi soggette e collettività queer e transfemministe. Per noi il Pride non è un evento mondano al quale è possibile rinunciare, ma una lotta politica, un’alleanza di corpi, una festa con cui riappropriarci dello spazio pubblico, risignificarlo, risessualizzarlo e sottrarlo allo sfruttamento capitalista delle persone, delle risorse e delle specie, sottrarlo ai rapporti di forza dell’eteropatriarcato, alla violenza e alle discriminazioni del razzismo.
La pandemia globale da coronavirus e la crisi economica che ha generato hanno mostrato le vulnerabilità e l’interdipendenza dei corpi, dei territori, delle specie e delle popolazioni, ma anche la necessità di costruire reti di mutuo aiuto per superare l’individualismo, a favore delle comunità e delle esigenze di chi ha subito maggiormente le conseguenze della crisi. La ricaduta delle misure di sicurezza e igiene pubblica, infatti, è stata fortemente asimmetrica e ha segnato ancora di più le gerarchie e le divisioni neoliberali di classe, di razza, di genere e di sessualità. Come lesbiche, frocie, bisex, persone trans, intersex, asessualx, madrx, femministe e transfemministe queer abbiamo sempre lottato mettendo al centro la riproduzione sociale e mai come in questo momento è emersa la sua rilevanza rispetto alla produzione. Tuttavia, nonostante la centralità della salute degli individui nel discorso pubblico, il diktat della produzione, dell’estrazione e del profitto si è imposto sulla cura.
In questi mesi abbiamo agito secondo un principio di autoresponsabilizzazione collettiva per il contenimento del contagio e di autogestione critica del distanziamento fisico, nella consapevolezza che per le donne e le persone lgbtiqueer essere ricondotte e isolate a casa ha rappresentato un arretramento nei propri percorsi di autodeterminazione e che spesso il raddoppio di lavoro di cura e smart working, unito al sostegno della didattica a distanza è ricaduto sulle donne e soggettività femminilizzate nelle case, evidenziando il loro ruolo di snodo ri/produttivo della società, del valore e della violenza eteropatriarcale. 
Abbiamo scelto di stare dalla parte della cura, terreno che consideriamo pratica conflittuale. La cura non è infatti intrinsecamente “carina”, “materna” o “naturale” ma uno spazio di lotta: lottare per e con cura significa sostenere le lotte per l’accesso alla salute pubblica di tuttx (specialmente per chi si trova in strutture di contenimento come carceri, residenze per anziani, sprar), significa lottare per la salute sul lavoro, per il riconoscimento dei lavori legati alla riproduzione della vita e dell’ambiente, per la casa, significa lottare contro l’arbitrio e la violenza delle forze di polizia, significa garantire accesso gratuito, indiscriminato e sicuro a scuola e università. 
Le retoriche governative familiste e patriottiche emerse durante la pandemia non ci rappresentano: i nostri affetti stabili sono tutte le soggettività queer. Non siamo congiunte ma unite nella lotta. Per questo abbiamo attivato nelle città reti di mutualismo e solidarietà queer: per chi non poteva più lavorare, per i/le/* sex worker, per tutte le frocie scappate di casa e imprigionate in città chiuse e ostili, a sostegno di chi a casa ci è dovut* tornare, ricacciat* nella famiglia di provenienza, per i soggetti razzializzati e confinati nelle periferie delle realtà urbane.
Il discorso e la risposta istituzionale alla pandemia e alla crisi puntano ora a un ritorno alla normalità e di nuovo invisibilizzano le soggettività e relazioni queer che quella normalità eteronormativa hanno sempre combattuto. Non siamo solo coppie o famiglie più o meno arcobaleno e non si tratta solo della storica lotta per il riconoscimento delle coppie gay o lesbiche. I diritti civili non sono mai separati dai diritti sociali e le lotte per il riconoscimento delle forme di vita di ciascun* sono sempre lotte per la redistribuzione: nelle nostre reti di mutualismo siamo ripartite dalla materialità delle vite queer e abbiamo reso visibili parentele non di sangue, comunità non “nazionali”, reti di affetto, di relazioni e di cura che vanno oltre la famiglia normata, etero– o omonormativa che sia. Altre forme di intimità.
Con la pratica dell’autorganizzazione ci costituiamo in rete, attiviamo nodi nelle città e ovunque, e invitiamo tutt* a farlo. Condividiamo ricerche e esperienze sulla salute; partiamo dall’autoinchiesta sui bisogni e sui desideri delle soggettività queer per declinare le forme di mutualismo; affrontiamo in modo intersezionale la questione dei corpi, acquisiamo una prospettiva antispecista per destrutturare le categorie di genere e di specie; ci interroghiamo sul rapporto potere/tecnologie/soggettività attraverso la critica decoloniale alle tecnologie e il loro hackeraggio. 
In questo giugno segnato dalla riapertura della produzione e dalle proteste del movimento Black lives matter, riteniamo necessario costruire una rete di realtà lgbtiqueer transfemministe con cui tornare in piazza per un Pride che sia safer e che si connetta alle lotte e ai conflitti sulla cura e sulla redistribuzione della ricchezza, contro il razzismo e la violenza di genere. Siamo lesbiche, frocie, bisex, intersex, asessualx, persone trans, non binarie, sex worker, soggettività razzializzate, terrone, transfemministe, queer, sfamiglie, antispeciste e anticapitaliste…
Abbiamo costruito, con un’assemblea di Coordinamento per un pride transfemminista queer 2020, una rete di Pride radicali, critici, nelle città e nei territori, uniti da una cornice di rivendicazioni comuni, che superino il modello vetrina dei Pride ai quali siamo generalmente abituate.
    
2. LA CURA È UNA LOTTA POLITICA
Per le soggettività transfemministe queer, la cura è una responsabilità collettiva che si declina in forme autogestite, diffuse sui territori. Le lotte femministe per l’aborto degli anni ’70 e i movimenti degli anni ’90 contro l’HIV/AIDS consegnano un’eredità lucida costituita da pratiche di autoformazione nella ricerca, da un dialogo critico e da un conflitto continuo con le case farmaceutiche. Le pratiche di cura intorno all’aborto e all’accesso alle cure costituiscono preziosi modelli di redistribuzione di saperi e conoscenze e di autodeterminazione sessuale, contro un modello di sistema sanitario basato unicamente sul rapporto medico-paziente all’interno delle strutture ospedaliere – una barriera all’accesso per molte soggettività che rappresentiamo. A partire da questa considerazione, di fronte alla costante privatizzazione del sistema sanitario, alla patologizzazione delle soggettività trans, all’obiezione di coscienza promossa da medici e movimenti pro-life, alla sessuofobia di tutti i partiti e di troppo personale medico che invece di medicinali dispensa consigli (di castità), riteniamo necessario redistribuire saperi, conoscenze e risorse.
La nostra rete lotta contro lo stigma dell’HIV e di tutte le infezioni sessualmente trasmissibili. La nostra rete lotta contro l’obiezione di coscienza dei ginecologi, contro le forme di patologizzazione di soggettività non normate, contro il silenzio che avvolge la salute sessuale. Lottiamo per rendere visibili i vissuti delle persone HIV+, rafforzando il tema che U=U (undetectable = untrasmittable). Lottiamo per il libero accesso a prevenzione e terapie, ai test, ai farmaci e ai vaccini. Dalle lotte per la terapia dell’HIV, evidenziamo le disparità di trattamento che i diversi corpi subiscono quando si tratta di prevenire anche HPV e HAV. Dalle nostre madri e nonne queer abbiamo imparato che il libero accesso alle terapie e alle visite mediche è la chiave della libertà sessuale. Noi non crediamo che questo accesso sia libero finché si continueranno a chiudere i consultori, finché i centri MTS saranno pochi e sovraffollati, finché il personale medico continuerà a complimentarsi se pratichiamo la monogamia o la castità invece di consigliarci il modo più sicuro per viverci la nostra promiscuità.
Bisogna garantire aborto farmacologico senza ricoveri ospedalieri, andando oltre le legge 194. Bisogna ampliare l’accesso alle terapie ormonali e nutrire il dibattito sulla depatologizzazione e sulla legge 164. Bisogna contrastare con ogni mezzo le “mutilazioni genitali” sux neonatu intersex, imposte alla nascita. In tempo di Covid-19, subiamo i problemi di accesso ai servizi e ai farmaci, alla PREP e all’Ru486. Bisogna lottare affinché i test, la prevenzione e il sapere siano accessibili anche ax più giovani, affinché si costruisca un’educazione adeguata – a partire dalle scuole, e diffusa sul territorio –  alla salute, alla sessualità e all’affettività, libera dai rischi e dalle paure delle infezioni. 
3. OLTRE L’OMOTRANSFOBIA, CONTRO L’ETEROPATRIARCATO
La proposta di legge contro l’omolesbobitransfobia non è sufficiente: non basta modificare il codice penale con ulteriori aggravanti, bisogna contrastare la società eteropatriarcale a livello sistemico e non individuale. 
Pensiamo che la legge contro l’omolesbobitransfobia non si debba ridurre ad un inasprimento delle pene a costo zero, ma sia centrata su interventi strutturali di educazione e prevenzione. Riteniamo dunque necessario valorizzare positivamente i punti che vanno in questa direzione, sul presupposto che le discriminazioni sono parte di una violenza sistemica e strutturale (l’eterosessualità obbligatoria), che va riconosciuta e combattuta (non col solo strumento penale).
Non ci bastano le giornate contro l’omofobia: la nostra lotta contro la costruzione eteropatriarcale della società avviene ogni giorno. Superiamo l’idea che la discriminazione e la violenza basata sul genere e sulla sessualità siano ‘fobie’, casi isolati causati dalla psiche di singoli: non si soffre di omoxxxfobia come si soffre di claustrofobia. Qui si parla di  violenza, sopraffazione, dei meccanismi di oppressione che regolano la nostra società e che vorrebbero regolare anche noi. L‘oppressione è la matrice stessa della società eteropatriarcale in cui viviamo.
Durante il lockdown, nelle case e nelle famiglie eteronormate, la violenza sulle donne e sulle soggettività lgbtqia+ si è aggravata. Riteniamo necessario, quindi, sostenere e moltiplicare le esperienze e gli spazi dei centri antiviolenza, allargando il dibattito, puntando su percorsi di formazione e sul decentramento territoriale di pratiche di cura sulla salute delle persone che subiscono l’oppressione eteropatriarcale. Notiamo inoltre che la narrazione di regime parla di omotransfobia, cancellando soggettività e istanze come quelle di donne lesbiche, persone bisessuali o asessuali. A livello pratico, ciò implica che queste soggettività sono costrette a farsi rappresentare da associazioni gay e lesbiche entro le quali spesso non si riconoscono. Inoltre, questa cancellazione mette in pericolo le richieste di asilo delle persone bisessuali, poiché passibili di essere considerate etero.
4. IL LAVORO SESSUALE È LAVORO
Come lavoratricx del sesso, durante la pandemia siamo state investite dalla violenza economica strutturale: il nostro lavoro, infatti, non è riconosciuto. Esporci per noi resta un fatto rischioso a causa dello stigma. Bisogna promuovere forme di mutualismo dal basso, pratiche di cura tra lavoratrici di strada: l’autodeterminazione dei corpi passa anche dalla presa di parola in quanto lavoratricx del sesso – donne, frocie, trans, madrx,  persone razzializzate e sessualizzate. Bisogna dare visibilità al lavoro sessuale, contro le neo-abolizioniste e la criminalizzazione.
5. UN PRIDE QUEER È UN PRIDE ANTIRAZZISTA
In quanto movimento a maggioranza bianca, la nostra solidarietà alle proteste antirazziste mondiali non è sufficiente. Questa maggioranza bianca deve posizionarsi, soprattutto alla luce dei processi di omonormatività, omonazionalismo e omocapitalismo che investono le comunità lgbt nelle società occidentali, e rileggere il contesto italiano per contrastare il razzismo sistemico che distribuisce nel nostro paese il privilegio in base al colore della pelle: lottiamo per abolire le soluzioni legislative (dalla legge Bossi-Fini fino ai più recenti decreti per la regolarizzazione dei braccianti) che generano sfruttati e sfruttatori, vite degne di vivere e vite che possono essere sacrificate. Disprezziamo e ci opponiamo al razzismo che espelle e uccide i corpi non bianchi a Lampedusa, a Lesbo, ai confini dell’Italia e dell’Europa, e al razzismo che caccia gli ‘stranieri’ dai quartieri per far posto ai profitti bianchi dell’intrattenimento arcobaleno, del mercato del mattone, delle logiche del decoro. Studiamo la storia e costruiamo la consapevolezza del nostro passato coloniale. 
Recuperiamo la consapevolezza che la nostra società e i suoi italianissimi valori si reggono sullo sfruttamento di persone razzializzate e per questo vittime di odio, sopraffazione e violenza, i confini tra quel che chiamiamo nostro, e quello che chiamiamo altro: le braccia altre che raccolgono le nostre fragole e pomodori, le gambe che procurano i nostri orgasmi, le mani che puliscono le nostre case e il culo dellx nostrx nonnx. Dobbiamo mobilitare il nostro privilegio bianco per far sì che le voci marginalizzate siano ascoltate. Assieme possiamo attivare pratiche concrete che mobilitino questo privilegio, per ridistribuire e amplificare la voce e il racconto della migrazione da parte di chi ne è protagonista, sui temi delle soggettività queer. Uno degli esempi più ovvi della disparità fra chi migra e chi è solidale è la condizione di illegalità a cui sono costrette molte delle persone che migrano. Come costruire relazioni orizzontali in un contesto del genere? è una delle domande a cui vogliamo cercare risposta.
6. NON ESISTONO DIRITTI CIVILI SENZA REDISTRIBUZIONE
Nonostante la rappresentazione mainstream delle persone lgbt sia tendenzialmente bianca, maschile, cis e benestante, subiamo l’oppressione di un sistema economico che ci mette ai margini. Sfratti, affitti insostenibili, lavori mal pagati, mancanza di reddito limitano le nostre condizioni di vita, costituiscono un ostacolo all’autodeterminazione dei nostri corpi. Non tuttx noi abbiamo avuto un luogo sicuro in cui trascorrere l’isolamento e abbiamo subito l’obbligo di pagare gli affitti e gli sfratti. Lottiamo quindi per un accesso incondizionato al reddito, per la possibilità di autodeterminare le nostre scelte e vite, lottiamo per allargare servizi sociali per la riproduzione degli individui tuttx, lottiamo per garantire una casa per tuttx, lottiamo perché le nostre condizioni sul lavoro siano sicure e i nostri salari garantiti. Lottiamo contro le categorie che riproducono disuguaglianza e paralisi, vogliamo essere pagatx tuttx per tutto il lavoro gratuito che facciamo da sempre. Siete in credito con tuttx noi, è ora di ripartire.
7. L’ISTRUZIONE È FONDAMENTALE
I movimenti sulla tema scuola sono attraversati da rivendicazioni generaliste che rendono difficile riuscire a focalizzarsi sui temi transfemministi e queer. Il lockdown ha acuito la divisione sessuale del lavoro nell’ambito dell’istruzione, nel caso di insegnanti con figlx a carico, attraverso lo strumento telelavoro, a causa della precarietà che non ha permesso accesso a sussidi, nel caso di donne e soggetti femminilizzati sui quali è ricaduto il lavoro di cura e istruzione dex figlix. È importante una scuola che non sia a casa, per il bisogno di formarsi in un ambiente fuori dal contesto familiare, stimolare la formazione indipendente fuori da meccanismi di infantilizzazione. La scuola non può essere escludente verso le diversità, deve superare le barriere definite dal reddito, dal genere, dal livello di istruzione della famiglia di origine, dal colore della pelle, dalla disabilità e deve spingere verso l’educazione all’affettività, al genere, al consenso, contrastando lo stigma e il segreto su sesso, consenso, relazioni, illustrando la pluralità dei modelli sociali e familiari che esistono e sono esistiti al mondo. Per questo la scuola, tutta, non può essere dimenticata, sottofinanziata e trattata come diritto trascurabile. I/le minori sono persone, non merce di poco conto.  
8. IL PRIDE QUEER È ANTISPECISTA E AMBIENTALISTA
La diffusione epidemica del coronavirus, che si aggiunge a una lunga serie di altre crisi, ci ha mostrato, a partire dalla colpevole mancanza di volontà politica per scongiurarla, la grave incapacità di provare a comprenderne le cause e, conseguentemente, di immaginare soluzioni politiche e non tecniche. La pandemia ci ha anche permesso, come mai prima d’ora, di puntare i riflettori sul rapporto gravemente deteriorato che intratteniamo con gli altri animali e con gli ecosistemi. Il privilegio di specie è il paradigma di ogni forma di violenza e di dominio; diffuso, insidioso e pervasivo perché invisibilizzato dalla presunta naturalizzazione. La norma specista, al pari di quella eterosessuale, è totalmente interiorizzata e la meno indagata. Proprio il dualismo umano/non umano, ancor prima di quello maschio/femmina e di quello bianco/non bianco, è servito a costruire l’identità umana ed è il modello perfetto per costruire ogni dicotomia escludente. Non esiste qualcosa come “l’animale”. La nozione di animale che comprende il subumano, il non-umano, il disumano è il veicolo concettuale per giustificare il dominio e ogni tipo di violenza di matrice razzista. Con i loro continui salti di specie, gli altri animali revocano il concetto stesso di specie, ne mostrano chiaramente il valore di dispositivo, spacciato come naturale, ma in realtà teso a sorvegliare e a disciplinare. La Resilienza delle altre specie e delle altre forme di vita, del pianeta stesso, fa da eco e dà esempio alle forme di Resistenza delle soggettività umane devianti, precarie, femminilizzate, razzializzate. Gli animali stessi sono una forza nel processo di cambiamento sociale. Attraverso le cosiddette “armi dei deboli”, simulano incapacità, disobbediscono agli ordini, rallentano, si rifiutano di lavorare si prendono delle pause senza permesso, compiono apertamente o di nascosto piccoli furti, fingono obbedienza, 
distruggono le macchine del sistema produttivo, evadono, attaccano, si ribellano… 
Il pride queer è multispecie. Imparare ad ascoltare, empatizzare, sostenere, entrare in relazione sono forme primarie di lotta al patriarcato specista perché la realtà non è fatta di somme di individui ma di reti di relazioni in continua relazione tra loro, di mondi in necessaria coabitazione.  
9. LE TECNOLOGIE QUEER SONO AUTOGESTITE
Stare dalla parte della cura e dell’autoresponsabilità in questi mesi ha significato anche fare una scelta autogestita dal punto di vista tecnologico, perché la cura del sé e delle relazioni comunitarie non esclude il conflitto con le multinazionali dell’IT che hanno particolare interesse strategico nel profilare le nuove soggettività queer, come testimonia la loro imponente presenza ai Pride. 
La cultura digitale non può essere ridotta all’intrattenimento di masse di spettatori per mezzo dei broadcaster globali e delle piattaforme digitali capitalistiche. 
Occorre disidentificarsi dalla coercizione politica che ci costringe a desiderare la norma del dominio tecnologico e a riprodurla. Rivendichiamo mezzi di comunicazione e strumenti digitali liberi e autogestiti, tramite cui promuovere condivisione, processi orizzontali, distribuiti e inclusivi. 
Ringraziamo le comunità hacker che hanno saputo mettere a disposizione, diffondere e coltivare strumenti tecnopolitici, fra questi in particolare i collettivi Autistici/Inventati, Riseup, Cisti.org per la messa a disposizione di mailing list, blog, servizi di videoconferenza e pad per la scrittura collaborativa.
La riflessione sulla cura si è posta anche in termini di formazione e autoformazione nelle comunità queer: non possiamo delegare ai tecnici interni al movimento qualsivoglia pratica legata alle tecnologie, occorre condividere i saperi e generare percorsi di autonomia. Il sapere Tecnico, anche quando autogestito, deve poter essere sottoposto alla critica politica del sapere Frocio, che possiede metodi di apprendimento specifici che non possono essere sostituiti dai metodi della norma scientifica occidentale. Il tema della formazione ha posto una riflessione di classe riguardo all’accesso alle conoscenze tecnologiche. La quarantena infatti ha evidenziato fortissime disparità sociali nella capacità individuale di compensare lo smantellamento della scuola pubblica. Il tema dell’accesso alle tecnologie va declinato in termini di accesso alle infrastrutture e alle conoscenze, non in termini di accesso ai prodotti commerciali dell’informatica gratuita, anche qualora fossero open source. Non ci interessa l’accesso inteso nei termini di servizio delle piattaforme commerciali, ma l’accesso come processo che costruisce e tutela il patto formativo tenendo in considerazione le fragilità di soggettu altru nella comunità formativa. Ci interessa generare un ambiente tecnologico e di apprendimento antiautoritario, decoloniale, transfemminista e queer, negoziando ogni elemento inscritto nell’ergonomia delle piattaforme e nelle policy dei server che erogano i servizi.
10. CALENDARIO PRIDE TFQ 2020
Invitiamo tutte le realtà queer e transfemministe che si riconoscono in questo programma a condividerlo e ad aderire al nostro coordinamento [phrocissime(a)inventati.org].
Ad oggi, questo documento verrà portato in piazza da questi Pride (in aggiornamento):
27.06
Bologna, ore 14
piazza del Nettuno
B-Side PRIDE Piazza TFQ
evento | blog
Milano, ore 15 
via Confalonieri, 3/5
NON Biciclettata TransFemministaQueer
evento | blog
28.06
Bergamo, ore 12
Queer-nic
[more info soon]
Roma, ore 17
piazza dell’Immacolata (San Lorenzo)
RiPRIDEamoci gli spazi 2020
evento
11.07
Torino, ore 16
piazza Castello
Free-K Pride: Frocial Mass!
evento | blog
1.08
Rimini
Pride Off
[more info soon]
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NON Biciclettata

Posted on 2020/06/21 - 2024/04/11 by phrocissime

MARCIONA è una chiamata ampia, disordinata ma puntuale, per una marcia transfemministaqueer. E’ resistenza frocia alle derive omonormative e ai processi di esclusione delle soggettività meno assimilabili – le stesse che 50 anni fa lanciarono il primo mattone, o tacco!

Marciamo con orgoglio tutto l’anno, non ci limitiamo a una parata estiva escludente e priva di rivendicazioni politiche radicali, ridotta a vetrina o sfilata.

Ci sentiamo soffocare in una città sempre meno accessibile e più elitaria, una città modello di uno sviluppo neocoloniale, perso nella narrativa di un progresso infinito, perpetrato ai danni di un pianeta dalle risorse sempre più esigue e sempre più concentrate nelle mani di pochi maschi bianchi.

I sei colori delle bandiere arcobaleno ci stanno stretti. Non ci sentiamo rappresentatx dalle agende politiche del capitalismo arcobaleno, ogni giorno più escludenti, che sfruttano l’acronimo LGBTQ e ne promuovono la messa a profitto. Vogliamo transitare liberx, mutevoli e mutanti tra tutte le sfumature di colore e tutti i generi che possiamo immaginare, oltre le barriere di ogni specie.

Quest’anno la pandemia ha acuito diseguaglianze, vulnerabilità e privilegi; le grosse manifestazioni sono state annullate ma abbiamo deciso di chiamare una “non-biciclettata” per riprenderci le strade. Vogliamo proporre una modalità il più possibile inclusiva: in bici, a piedi o su altri tipi di ruota; ma tutt* insieme!

Marciamo con le mascherine e rispettando il distanziamento. Cogliamo l’occasione per travisarci ed eludere la società del Controllo! Coltiviamo il margine e stringiamo alleanze, marciamo verso altri futuri possibili.

Sabato 27 giugno, ore 15, Piano Terra – via Confalonieri, 3

SIAMO MARCE, NON MERCE!

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