Sulle casacche degli uomini gay internati nei campi di concentramento nazisti un triangolo rosa veniva cucito in spregio alla loro femminilità. Negli anni ci siamo riappropriatx come movimenti lgbtqi+ del triangolo rosa dell’omocausto, che è diventato simbolo di tutta la violenza perpetrata contro i corpi non conformi alla norma etero e cis: lesbiche, froci, trans, interessessuali, bisessuali, asessuali, queer…
L’eterosessualità obbligatoria e il binarismo di genere imposto dalla cultura eteropatriarcale definiscono tutti i giorni e sulle vite di tutt* noi, etero e non, la violenza che chiamiamo eteronormatività.
Si parla invece di omonormatività quando questi codici eteronormanti modellano il nostro concetto di omosessualità, rendendolo presentabile, accettabile, assimilabile alla società eterosessuale. Sì, parliamo del maschio gay bianco, muscoloso, abile, magari sposato e con figli. Parliamo anche della lesbica vestita bene, bianca pure lei, fedele al modello capitalista di donna in carriera senza difficoltà economiche.
L’omonormatività si manifesta in quel ripiegamento a una dimensione individuale o che riproduce la forma della famiglia eteronormata, voltando le spalle alla dimensione collettiva, al generare parentele, all’essere solidali con le lotte che diventano, in una prospettiva anestetizzata, “le lotte degli altri”. Questa omonormatività la vediamo rappresentata sulle locandine dei pride di mezzo mondo, pride dimentichi di essere nati dall’urlo di donne trans di colore lavoratrici sessuali in una rivolta contro la violenza della polizia.
Abbiamo portato avanti molte lotte e portato a casa molte vittorie come movimenti lgbtqi+ nella nostra storia. Ma molte di queste vittorie si sono sbiadite nei processi di assimilazione, adattandosi al sistema dominante; processi dei quali spesso (e spesso inconsapevolmente) noi tuttx siamo complici.
La violenza del sistema si è insinuata tra di noi e ha trovato all’interno della nostra stessa comunità le alfiere e gli ancelli della “norma”. La violenza omolesbobitransqueerfobica è anche tra noi: la propiniamo quotidianamente alle nostre fratelle, ai nostri sorelli e a noi stessx, tuttx culturalmente assoggettatx dall’omonormatività. La propaghiamo quotidianamente attraverso il sistematico disprezzo della femminilità, attraverso il ridicolizzare i corpi fuori dai canoni estetici dominanti, nella reiterazione di pregiudizi razziali ed etnici, nella violenza verbale delle nostre chiacchiere da bar o dei testi sui nostri profili per rimorchiare sul telefono. In molti aspetti di ciò che pensiamo definisca la nostra sessualità si palesa la tensione ossessiva di raggiungere quel modello di maschio-gay-bianco-muscoloso-abile-ricco – magari pure sposato e con figli – che incarna la norma, il decoro, ciò che è accettabile, appunto l’omonormato.
La tensione al raggiungimento di questo modello astratto e inarrivabile si traduce in repulsione del corpo non conforme, del corpo grasso, magro, nero, marrone, giallo, non abile, povero, troppo o non abbastanza effeminato. Ma questa violenza omonormativa, che continuamente performiamo a partire dal nostro linguaggio, non è omosessualità. Questa violenza non è libertà. Questa violenza non è motivo di nessun orgoglio e nessun pride.
Questa violenza omonormativa è continuare a cucire quel triangolo rosa addosso alle nostre fratelle e i nostri sorelli, diventando tuttx noi artefici ogni giorno di un continuo omocausto.
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